"Amour" di Michael Haneke, la storia di un vero amore
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Seconda Palma d’oro al Festival di Cannes 2012 per il regista Michael Haneke, Amour è una profonda e coraggiosa riflessione sull’ultima esperienza che tutti noi, in qualità di esseri umani, siamo chiamati ad affrontare, quella del distacco dalla vita e dalle persone che abbiamo amato.
I protagonisti della storia, Georges e Anne, una coppia di insegnanti di musica ormai molto anziani, rientrano a casa dopo aver ascoltato il concerto di un giovane che da ragazzo è stato loro allievo. Il giorno dopo Anne perde conoscenza per alcuni minuti. Subirà un intervento a causa di un’ostruzione alla carotide e tornerà a casa con un lato del corpo completamente paralizzato.
Inizialmente, Anne, grazie alla tenerezza del marito, che l’ama e sempre l’ha amata con grande passione, affronta con coraggio, con serenità e forza il cambiamento totale e doloroso della sua esistenza.
Ma, nonostante tutto l’amore che questi due esseri nutrono l’uno nei confronti dell’altro, la sofferenza che cercano di affrontare col sorriso è qualcosa che non si può superare, si tratta di un evento ineluttabile che si può solo accettare. Ed approdare ad una tale consapevolezza diventa tanto più difficile quando la fine della sofferenza di una persona ha bisogno dell’aiuto e della volontà di coloro che l’hanno amata.
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Le condizioni fisiche di Anne peggiorano ogni giorno di più. E’ lei stessa un giorno a dire: “Perché infliggerci questa tortura? Non c’è alcuna ragione di continuare a vivere”. Georges le risponde di immaginare cosa avrebbe fatto lei trovandosi al suo posto. “L’immaginazione e la realtà hanno poco in comune”, è la risposta di Anne.
Questo pensiero è ciò che il film concretizza. Haneke fa vedere una sofferenza che non si può immaginare, che non si può conoscere e capire finché non la si è vista, vissuta, proprio così, fino in fondo; la sua regia è un bisturi che viviseziona, con precisione chirurgica, per mostrare ogni particolare crudo e penoso dei momenti che i protagonisti sono costretti a vivere. I tagli del bisturi avvengono simultaneamente nell’animo di chi guarda. E’ una regia che tortura.
Come già in altri film, Haneke non utilizza mai la musica, per accompagnare o sostenere le emozioni, ma solo i rumori, i suoni delle cose, che in questo caso contribuiscono ancora di più a creare una sensazione di soffocamento, facendo affondare lo sguardo dentro stanze senza luce, come fossero sabbie mobili.
Lo spazio in cui i personaggi si muovono è asfittico, claustrofobico, grigio; esso è unicamente l’appartamento in cui vivono che, sempre con le finestre chiuse, è diventato una gabbia lontana dalla vita. Non esiste più la vita, sebbene un meccanismo di assistenza e cura, solo in apparenza virtuoso, continua ad alimentarne una fiammella triste e fioca.
Più di una volta nell’appartamento entra un piccione che Georges ha cura di rimettere in libertà; queste scene, di rara bellezza, evocano il significato della libertà che gli esseri umani, a causa di tradizioni culturali e religiose, non riescono a riconoscere come diritto anche per i propri simili, quando si trovano in situazioni di sofferenza irreversibile.
Un giorno un vicino di casa fa i complimenti a Georges per il modo in cui sta affrontando la situazione, ma per lui non è più così, le sofferenze sempre più gravi di Anne gli fanno scoprire quanto il suo amore per lei si sia trasformato in egoismo e nella paura di non averla più accanto.
Anne è qualcosa a cui si aggrappa per dare un senso alla sua esistenza, per riavere la quotidianità di una vita insieme, sostituita dal rituale delle cure per lei. È una riflessione estremamente dolorosa quella che lo porterà ad un sacrificio molto più grande di tutti quelli sopportati sino ad allora ed ugualmente a comprendere che esso sia, in quel momento, l’unico vero gesto d’amore.
Tutto il film si svolge con una freddezza implacabile ma tocca vertici tali di sentimento da divenire persino lirico, pur nel suo estremo realismo; e, nel finale, la regia di Haneke, deposto il bisturi crudele, lascia spazio al sogno del cinema, che può così riappropriarsi della sua magia, dando la possibilità di esprimere un desiderio che solo lì, sempre, può essere esaudito.
“L’amore, il vero amore, cresce e si fa profondo col tempo, né finisce con la vita”. Platone
(in foto una scena del film)
Gisella Rotiroti